Di Eugenio Abruzzese
L’appello di Amnesty a Biden: faccia la cosa giusta, faccia cadere le accuse
E’ tutto da rifare. Del breve e fragile sospiro di sollievo, provocato a gennaio dalla decisione di non estradare il giornalista Julian Assange negli Stati Uniti, non ne rimane che un lontano ricordo. Nella giornata di mercoledì, infatti, si è tenuta l’udienza preliminare del processo d’appello che, di nuovo, ha riacceso l’incubo dell’estradizione, il quale solo apparentemente era passato. Timothy Holroyde e Judith Farbey, i giudici incaricati di esaminare il ricorso degli Stati Uniti, hanno riconosciuto come fondate le argomentazioni presentate dall’avvocatessa Clair Dobbin che, in rappresentanza del paese a stelle e strisce, ha contestato la sentenza di primo grado emessa dal giudice Vanessa Baraitser lo scorso 4 gennaio. Quella sentenza verteva in particolare sul fatto che Assange non potesse essere estradato a causa delle sue condizioni psico-fisiche e delle condizioni carcerarie statunitensi che lo attendevano. Ed è proprio su questo punto che si è concentrata l’accusa statunitense, la quale ritiene che la perizia condotta dal neuropsichiatra Michael Kopelman, che a settembre testimoniò le condizioni in cui aveva trovato il giornalista, è da ritenersi “fuorviante” perché aveva nascosto al giudice la relazione di Assange con Stella Moris e il fatto che avesse due figli con lei. Edward Fitzgerald, legale del giornalista, ha risposto a questo argomento dicendo che quella omissione era giustificata dal voler proteggere gli affetti di Julian. “Un’organizzazione di sorveglianza stava prelevando il DNA dal pannolino del bambino e esaminando le misure per rapire o avvelenare Assange” ha ricordato Fitzgerald, riferendosi al periodo in cui la compagnia di sicurezza UC Global spiò il giornalista nell’ambasciata. L’udienza d’appello vera e propria si terrà il 27 e 28 ottobre.
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Il processo continua: l’udienza preliminare dell’appello favorisce l’accusa statunitense
Lunghi capelli bianchi, baffi e barba incolta nascosti da una mascherina, grandi occhiali da vista, camicia bianca a maniche lunghe, cravatta slacciata. I pochi giornalisti che hanno avuto il privilegio di ottenere il link per seguire via video il processo, non hanno potuto fare a meno di notare che Julian Assange è irriconoscibile: appare molto invecchiato ed estremamente stanco, tanto che più volte la seduta si ferma perché Assange scompare dall’inquadratura. E’ da sette mesi che non appariva in “pubblico”. L’ultima volta era tenuto in una gabbia di vetro, ora invece è dentro uno schermo. Nonostante la sua richiesta, Assange non ha avuto il permesso di partecipare di persona all’udienza, ma solo di collegarsi via remoto dalla prigione di Belmarsh. Neanche ai peggiori criminali è negato il diritto di partecipare in presenza al proprio processo. “Colpevole” di aver svolto il suo ruolo di giornalista rivelando all’opinione pubblica crimini di guerra e altri abusi, Assange è trattato come fosse uno spettatore: assiste al processo da lontano, tramite uno schermo, come se tutto questo non lo riguardasse.
Quella di mercoledì è stata un’udienza “speciale” concessa agli Stati Uniti. Il paese nordamericano aveva infatti già ricevuto il permesso di appellarsi alla sentenza di gennaio per tre motivi di ricorso, mentre solo altri due – riguardanti le prove presentate dal professor Michael Kopelman e la valutazione complessiva del giudice Baraitser sullo stato di salute di Assange – erano stati rifiutati dalla Corte di Giustizia. L’udienza è ruotata proprio intorno a quei due motivi che, alla fine, sono stati accolti dai giudici. Secondo l’accusa, tutta la sentenza di primo grado è sbagliata in quanto basata su una testimonianza “fuorviante” rilasciata a settembre da Kopelman. E’ molto ironico come il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti attacchi l’integrità di un importante medico del Regno Unito che ha testimoniato per Assange, mentre, allo stesso tempo, si affidi a un testimone che ha recentemente ammesso di aver mentito e di aver lavorato per l’FBI.
Gli altri tre motivi di ricorso, invece, erano stati presentati con successo il mese scorso dagli Stati Uniti, i quali avevano ottenuto il permesso di contestare se il giudice Baraitser avesse applicato correttamente la legge, l’insufficiente preavviso della sua decisione dato agli Stati Uniti e se le assicurazioni fornite dal governo avrebbero mitigato il rischio di suicidio di Assange. Dopo la sentenza, gli Stati Uniti hanno infatti assicurato alla Gran Bretagna che, se estradato, Assange non verrà rinchiuso nel famigerato carcere Adx Florence, sotto le crudeli “misure amministrative speciali”, e che sarà autorizzato a scontare la pena in Australia. Peccato che ci sia una “piccola” clausola neanche troppo nascosta tra le righe: se le circostanze dovessero cambiare, gli Usa si riservano il diritto di non garantire tali condizioni. Davvero molto rassicurante!
Nel frattempo continuano le richieste di liberazione del fondatore di Wikileaks. Ultima, in ordine di tempo, quella di Amnesty International che, il giorno prima dell’udienza, ha chiesto nuovamente al presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di “fare la cosa giusta” e far cadere le accuse mosse contro Julian Assange. Presente mercoledì, fuori dal tribunale, anche l’ex leader laburista Jeremy Corbyn, il quale ha affermato che Assange fa parte della”tradizione del giornalismo senza paura” poiché ha portato alla luce “verità imbarazzanti per gli Stati Uniti”.
In tutto questo, Assange continua a rimanere dietro le sbarre nonostante il Regno Unito non abbia più alcun motivo per trattenerlo (le 50 settimane per aver violato le condizioni della cauzione sono abbondantemente scadute) e nonostante siano passati ormai 7 mesi da quando è stata sospesa l’estradizione. A riguardo, Stella Moris, compagna di Assange, al suo arrivo in tribunale ha detto che “ogni giorno che questa colossale ingiustizia continua, la situazione di Julian peggiora disperatamente”.
Non è ancora il momento di abbassare la guardia: l’estradizione è dietro l’angolo e a rimetterci non sarebbe un solo uomo, ma noi tutti. Julian ha bisogno più che mai di noi, come noi abbiamo bisogno più che mai di Assange. O, meglio, di tanti Assange.
Tratto da: Antimafiaduemila