Stato-mafia, in scena la difesa Dell’Utri e l’eterna negazione dell’essere

Stato-mafia, in scena la difesa Dell’Utri e l’eterna negazione dell’essere

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Tempo di lettura: 10 min

Di Aaron Pettinari e Marta Capaccioni

Il legale Centonze: “Sono ormai 25 anni di processi”

“C’è una Procura di questo Paese che lavora ad una storia diversa rispetto a quella del processo. Diversa ed incompatibile. Perché se secondo quella Procura Dell’Utri e Berlusconi sono concorrenti nell’ideazione delle stragi allora dobbiamo prepararci ad un’altra narrazione. E davanti a noi avremo un altro capitolo e magari diranno che si sono sbagliati e che Dell’Utri non ha minacciato Berlusconi, ma insieme hanno organizzato le stragi. E’ questo il prologo di una narrazione nuova. E noi aspettiamo di vedere cosa accadrà. Nel frattempo crediamo che spetti a voi decidere, oggi su questo processo, alla luce delle carte e delle prove. Separando l’intimo convincimento da ciò che c’è nelle prove, oltre ogni ragionevole dubbio”. E’ con un salto in avanti, guardando all’inchiesta aperta dalla Procura di Firenze che indaga sui mandanti esterni delle stragi, che Francesco Centonze, avvocato di Marcello Dell’Utri, ha voluto concludere la propria arringa difensiva al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. Una sfida, quasi, forte di quelle inchieste più volte avviate ed archiviate, che da qualche anno hanno preso un nuovo impulso a seguito delle intercettazioni in carcere tra il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano ed Umberto Adinolfi. Ma oggi davanti alla Corte d’assise presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania), non si è parlato di “Berlusca” e la “cortesia” che (così disse Graviano nelle intercettazioni) sarebbe stata chiesta.
Nell’arringa a difesa del proprio assistito, in primo grado condannato a 12 anni e in precedenza già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa, pur affermando di credere nell’applicabilità del principio del “ne bis in idem”, Centonze ha voluto “affrontare” i temi del processo parlando di “eterno ritorno dell’uguale” nelle accuse proposte in questi 25 anni con una “fabbrica di narrazioni” e compiute dall’autorità giudiziaria fino ad arrivare “all’assenza della prova della minaccia di Marcello Dell’Utri nei confronti di Silvio Berlusconi”.
“Non è dimostrato in alcun modo, da nessuno, che dal versante governativo, nel corso di questi 25 anni di processi, ci sia stato un solo provvedimento legislativo, una norma, un codicillo varato dal governo Berlusconi favorevole a Cosa nostra. Anzi. Siamo solo di fronte a fake news che si ripropongono nel tempo, con cui si ritorna punto e capo con la storia del concorso esterno. La sentenza è disancorata alle imputazioni e noi chiediamo la nullità per mancata correlazione”.
Ovviamente nessun accenno è stato fatto a quelle parti in cui la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto che per 18 anni, dal ’74 al ’92 è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra sottolineando la “decisività dell’opera di Dell’Utri nel dare vita all’accordo fonte di reciproci vantaggi dei contraenti” fornendo “consapevolmente e volontariamente un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione”. Diversamente sono stati evidenziate le parti per cui i giudici avevano assolto l’ex politico di Forza Italia, con la formula “perché il fatto non sussiste”, per i fatti successivi al 1992.
Secondo la difesa dell’ex senatore infatti il tema del processo è la “minaccia stragista” che poi si tramuta in “pressioni, tentativi di pressione e ritorsione nei confronti del governo Berlusconi per ottenere provvedimenti legislativi favorevoli a cosa nostra. Gli attori in primo grado sono Brusca e Bagarella che affidano l’incarico a Mangano di riferire a Dell’Utri e quindi a Berlusconi. La fonte di tutto questo – ha affermato Centonze – è proprio Giovanni Brusca che si ricorda questi fatti tre mesi dopo l’assoluzione di Dell’Utri del 2010. Poi Brusca viene scartato, spostato, gli si dice, spostati – ha proseguito Centonze – ritorna un altro invece un altro collaboratore, Salvatore Cucuzza: bollato come inattendibile dalla sentenza definitiva della Corte di appello di Palermo del 2010 che ha assolto Dell’Utri dal reato di concorso esterno. Nella stessa sentenza (quella del 2010, ndr) anche Vittorio Mangano, viene ritenuto un chiacchierone che millantava le proprie amicizie per avere salva la vita (Berlusconi e Dell’Utri lo definirono un eroe, ndr). Poi arriviamo alla terza versione di questa storia, quella di questa procura generale, Mangano sparisce, evapora – ha proseguito Centonze – ed è Dell’Utri che riferisce ‘all’amico Silvio Berlusconi‘ le pressioni che provengono dal ‘popolo’ della criminalità organizzata. Siamo di fronte all’eterno ritorno dell’uguale: si possono fare processi penali cambiando la storia, gli attori e le fonti? In questo processo riecco il concorso esterno e il patto politico mafioso per cui Marcello Dell’Utri è già stato assolto. Di fatto 25 anni di processi in cui si ritorna al punto di partenza”.
Secondo il difensore dell’ex senatore di Forza Italia, “la sentenza di primo grado è il peggior prodotto del nostro sistema giudiziario perché arriva a una conclusione sganciata da ciò che l’istruttoria dibattimentale ha raggiunto”.

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L’ex premier, Silvio Berlusconi

Il cuore del processo
Proseguendo nella sua arringa il difensore dell’ex politico di Forza Italia ha puntato il dito contro le valutazioni dei giudici di primo grado.
Scriveva la Corte d’Assise di Palermo che “con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra manifestata da Dell’Utri nella sua funzione di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″. E poi ancora, confermando il ruolo di “cinghia di trasmissione” di Dell’Utri tra Cosa nostra e l’ex premier, si legge nelle motivazioni che nonostante non vi sia “prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.
Secondo Centonze “contenuti vaghi e generici. Addirittura una minaccia che si desume dal solo fatto che il messaggio venisse portato da esponenti di cosa nostra. Questa minaccia ha subito metamorfosi, cambiamenti, è stato un concetto deformato per sottrazione. Il cuore del processo è questo: è stata portata una minaccia stragista a Berlusconi?”.
Secondo l’accusa la risposta è sì.
Tramite Dell’Utri e Vittorio Mangano, i boss Bagarella e Brusca avrebbero chiesto a Berlusconi interventi sulle leggi, i processi e il trattamento carcerario ponendo l’accettazione di questa “proposta che non si può rifiutare” come condizione “ineludibile” per la fine delle stragi e degli attentati.

Il decreto Biondi
Centonze è poi intervenuto su quelle prove documentali che il giudice di primo grado ha tenuto in considerazione per giungere alla sentenza di condanna. Questioni importanti, che nel processo per concorso esterno non erano entrate, come il tentativo di correzione del decreto Biondi (anche conosciuto come “Salvaladri”).
Secondo l’accusa sarebbe uno di quegli interventi legislativi che dimostrerebbero non solo la percezione della minaccia di Cosa nostra da parte del Governo ma anche il tentativo di dare esecuzione ai suoi desiderata. Per i legali di Dell’Utri, però, non vi era nulla di anomalo.
E pensare che vi fu un’accesissima reazione da parte di Roberto Maroni. Quel decreto, che venne poi ritirato per una questione relativa alla ritenuta mancanza di motivi di urgenza, portò l’allora ministro degli Interni ad intervenire al Tg3 e dichiarare apertamente di essere stato “imbrogliato” e che quella norma era stata inserita a sua insaputa.
Con quella normativa si vietava la custodia cautelare in carcere (trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la Pubblica Amministrazione e quelli finanziari, comprese corruzione e concussione.
Inoltre, sottobanco, sarebbero state inserite disposizioni che favorivano Cosa Nostra.
Un decreto che, hanno evidenziato i giudici della Corte d’Assise di Palermo, interveniva sull’articolo 275 del codice di procedura penale. Se prima di allora si prevedeva che “… quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 416 bis… ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo… è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. Di fatto, mentre per gli altri reati la custodia cautelare era l’extrema ratio, per i reati di mafia era una scelta obbligata fino a prova contraria. L’articolo 2 del decreto Biondi modificava quella norma: nel senso che anche per i delitti di mafia il giudice, prima di applicare la custodia in carcere, avrebbe dovuto cercare e illustrare le esigenze cautelari, prima date per scontate. Inoltre si restringeva ulteriormente la possibilità di arresto preventivo in caso di pericolo di fuga: non bastava più il “concreto pericolo che l’imputato si dia alla fuga”, ma occorreva provare che l’indagato “stia per darsi alla fuga”. Inoltre vi era anche un altro articolo, l’art. 9, (che portò Maroni a denunciare anche in televisione il fatto) in cui si diceva: ‘Nell’art. 335 del C.C.P. il comma 3 è sostituito dal seguente: le iscrizioni previste dai commi 1 e 2 sono comunicati alla persona alla quale il reato è attribuito, al suo difensore e alla persona offesa che ne facciano richiesta. Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine il pubblico ministero può disporre con decreto motivando il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore complessivamente a 3 mesi’.
Maroni, sentito nel dicembre 2016 come teste, aveva ribadito di essersi sentito “imbrogliato” perché quella norma era stata inserita nel testo a sua insaputa. Fu una telefonata del Procuratore Caselli ad avvisarlo che con quella norma diventavano difficili, se non impossibili, le indagini sulla mafia. Il 23 luglio 1994 il decreto venne poi ritirato per una questione relativa alla ritenuta mancanza di motivi di urgenza.
Naturalmente anche nell’arringa si è sbandierato l’impegno dei governi Berlusconi nella lotta alla mafia, citando anche alcuni interventi legislativi come quelli sul 41 bis, ma la storia è ben diversa. Nel 2002, quel “rinnovato” 41-bis, con la legge 279 venne trasformato il carcere duro per i mafiosi da provvedimento amministrativo straordinario, rinnovato di semestre in semestre dal ministro della Giustizia, in una misura stabile dell’ordinamento penitenziario. Però, quello che in apparenza sembrava come un duro attacco alla mafia, sortì un effetto opposto. E così vi furono centinaia di boss che ottennero la revoca del 41-bis dai Tribunali di sorveglianza, per una serie di difficoltà interpretative della nuova legge e perché la riforma agevolava le richieste di annullamento. Per non parlare di tutti quegli altri provvedimenti, adottati dai governi di centrosinistra, ma senza alcun rilievo da parte dei governi di centrodestra (la chiusura di Pianosa e Asinara, l’abolizione di fatto temporanea dell’ergastolo e la predisposizione di una legge anti-pentiti).

Rapporto tra Dell’Utri e cosche mafiose
Sminuiti nell’arringa anche quei rapporti tra Dell’Utri e Cosa nostra. Senza nessun accenno alle sentenze definitive sul concorso esterno, ovviamente, il focus è stato incentrato sugli ulteriori elementi di prova acquisiti nel secondo grado. Così Brusca è stato dipinto come “inattendibile”, nella misura in cui Sinacori nonriscontrerebbe quanto riferito dall’ex boss di San Giuseppe Jato su quegli incontri che vi sarebbero stati tra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi.
Ugualmente non credibile sarebbe il collaboratore Francesco Squillaci che, sentito al processo ha riferito che “nel 1995, quando era detenuto a Pianosa, mio padre (Giuseppe Squillaci, ndr) era in cella con Vittorio Mangano e lo vedeva scrivere telegrammi a Silvio Berlusconi per essere aiutato. Mangano diceva a mio padre che Berlusconi era l’unica persona che poteva dare una mano ai mafiosi. Mio padre mi disse che questi neanche partivano, tornavano indietro e li strappavano”.
“Secondo la Procura generale, indirettamente, il suo contributo confermerebbe il ruolo di Dell’Utri. Ma le sue parole sono inattendibili, generiche e contraddittorie. Così come inattendibile è Pietro Riggio”.

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L’avvocato, Giancarlo Pittelli

Le parole di Pittelli
Ovviamente il legale ha anche cercato di sminuire un’altra prova sopravvenuta. Il riferimento è alle intercettazioni, depositate nel processo, a carico dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, nell’ambito dell’inchiesta Rinascita-Scott. Il 20 luglio del 2018, giorno in cui vennero depositate le motivazioni della sentenza Trattativa Stato-mafia, l’ex senatore, leggendo un articolo dove si parlava delle motivazioni del processo e di quel Patto avvenuto tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra, commentava: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato su Il Fatto Quotidiano della trattativa Stato-Mafia. Berlusconi è fottuto… Berlusconi è fottuto”. L’ex parlamentare aggiungeva poi che “Dell’Utri la prima persona che contattò per Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro non se ci… se ragioniamo, tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli e l’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… l’altro giorno ci pensavo dico trentasette anni”.
Dichiarazioni, quelle di Pittelli, minimizzate dalla difesa nel corso dell’arringa. In effetti l’avvocato Centonze afferma che non si può “dedurre dallo sfogo di Pittelli intercettato, che chissà con chi parlava e chissà quali entrature voleva manifestare ai personaggi con cui parlava, addirittura il fatto che Dell’Utri avesse chiesto aiuto alle cosche mafiose e alla ‘ndrangheta nella campagna elettorale di Forza Italia. Scusatemi, un pò pochino lo sfogo di Pittelli”. La difesa ha poi sostenuto in aula che l’ex senatore di Forza Italia su quello sfogo “potesse avere un tantino di risentimento nei confronti del suo partito”, per ragioni politiche, diverse da quelle considerate dalla procura.

Gli incontri Mangano-Dell’Utri ai tempi del Governo
Se alla prossima udienza verrà affrontata tutta la questione inerente il capo di imputazione contestato (ovvero l’art.338) a lungo il legale si è soffermato sul tema degli incontri tra Mangano e Dell’Utri.
E’ storia che è Marcello Dell’Utri, nel 1974, ad aver portato nella villa di Arcore lo “stalliere”, uomo d’onore di Porta nuova.
Condannato per mafia, scontò dieci anni di reclusione dal 1980 al 1990 e, uscito dal carcere, continua a incontrare dell’Utri negli anni caldi della nascita di Forza Italia, come dimostrano inoppugnabilmente le agende del manager.
Un punto nodale della sentenza di primo grado è la datazione degli incontri avvenuti anche nel periodo in cui il governo Berlusconi era in carica. Secondo Centonze, questi incontri non sono avvenuti.
I giudici di primo grado, diversamente, indicano almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) “per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”.
Nel primo incontro, riferito dal pentito Cucuzza, “Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia (“Per quanto riguardava il 41 bis, per quanto riguarda l’arresto sul 41 bis c’era stata una piccola modifica…”)” che “sarebbe stata inserita nel testo di un decreto legge che di lì a poco sarebbe stato approvato dal Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. Il fatto che, evidenziavano i giudici di primo grado, Dell’Utri riferì l’episodio a Mangano “per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo” dell’ex cavaliere, dato che “soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per ‘tranquillizzare’ i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece”.

Tratto da: Antimafiaduemila

Giustizia