Era stato sottoposto a verifica il 24 marzo il ponte di Pagliari crollato, durante la fase di apertura, per la rottura di un pistone idraulico
A uno a uno crollano i ponti, così come le certezze di rimanere illesi su questo lembo di terra. In Liguria, dilaniata dal crollo del Ponte Morandi, spaventata dal crollo del ponte sul Fiume Magra, scende giù a picco – alle 8.21 di questa mattina – un altro ponte, un’altra tragedia sfiorata.
Accade a La Spezia: qui, mentre erano in corso le operazioni di apertura del ponte sulla Darsena Pagliari, una parte della struttura ha ceduto. Secondo le prime ricostruzioni, dovrebbe essere andato fuori funzione un pistone a causa di una disfunzione del sistema idraulico. Non ci sono feriti, ma è ovvio che l’incidente abbia causato la totale interruzione di viale San Bartolomeo, svincolo fondamentale di collegamento con Lerici.
Per precauzione, alcune persone sono state evacuate da un edificio situato nelle immediate vicinanze del viadotto.
Ora il punto è: perché è crollato? Perché crollano i ponti in Italia?
Inaugurato nel 2010 dall’Autorità Portuale, lungo 21 metri e largo 12, era un ponte mobile che rappresentava un’opera fondamentale – che non è costata nemmeno poco – di passaggio e di riqualificazione della zona del porto, consentendo l’uscita o l’ingresso di imbarcazioni dalla darsena.
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Essendo stato fatto “solo” undici anni fa, ci saranno anche carenze di manutenzione, ma qui siamo probabilmente davanti a gravissime carenze progettuali e di costruzione.
Da anni l’Italia è interessata da una serie di crolli di ponti e viadotti: senza scomodare nuovamente il Morandi o il ponte sul fiume Magra, è il caso – per citarne alcuni – del ponte di Carasco, sempre in Liguria, ceduto durante l’alluvione che colpì del 2013, o del viadotto Scorciavacche in Sicilia, crollato l’1 gennaio 2015.
I ponti e i viadotti italiani sono stati costruiti per la maggior parte nella metà del secolo scorso con un impiego massiccio di cemento e con poco acciaio. Il cemento è inevitabilmente oggetto di usura nel corso del tempo, considerando che agenti atmosferici, acqua in primis, l’usura dello scheletro portante in metallo, ma anche il consistente aumento del traffico veicolare e gli effetti dell’inquinamento e del clima sulla sua stessa corrosione, ci hanno messo – decennio dopo decennio – una mano pesante.
In più, in Italia, si ha il vizietto di edificare in zone ad elevato rischio idrogeologico e di tirare su anche infrastrutture che necessiterebbero di solidità del terreno. Secondo i dati Ispra aggiornati al 2017, il 91% dei Comuni italiani ha almeno una zona a rischio frane e alluvioni. Va da sé che i nostri annosi problemi riguardano in primo luogo la pianificazione, la mancanza di costanti monitoraggi a tappeto e di interventi di vera e propria ricostruzione.
Le opere pubbliche in questo Paese hanno un gap inspiegabile, qualcosa chiamato vuoto che dura 40 o 50 anni e che poi si materializza in una mortale nuvola di fumo.
Fonte: Secolo XIX, GreenMe
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