Di Valerio Nicolosi
Commesse milionarie, autostrade, aeroporti, droni. Ecco i veri motivi della visita del premier in Libia
“Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa, per i salvataggi”. La frase di Mario Draghi pronunciata a Tripoli nel suo primo viaggio da presidente del Consiglio ha creato una scia di polemiche e attacchi, soprattutto da parte di chi da anni si occupa di Libia, diritti umani e soccorsi in mare.
“Follow the money” è una frase celebre del film “Tutti gli uomini del Presidente” e, per capire meglio quello che accade in Libia, “seguire i soldi” è la soluzione migliore perché è lo stesso Draghi che, nel suo stile asciutto e pragmatico, nei quattro minuti di intervento a Tripoli ha parlato di “momento unico per ricostruire”, ponendo come condizione fondamentale “la sicurezza dei siti”. O meglio, delle commesse.
Perché la chiave è tutta qui: le commesse in gioco sono molte e le possibilità di guadagno per le aziende italiane molto alte. L’investimento più importante è “l’autostrada della pace” che risale all’accordo del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi come indennizzo italiano per i crimini di guerra commessi in Libia durante la fase coloniale e che prevede l’ampliamento della strada litoranea costruita dall’Italia fascista nel 1937.
C’è anche l’aeroporto di Tripoli, altra grande commessa sulla quale l’Italia ha messo gli occhi e che permetterebbe, insieme all’autostrada e al controllo di parte delle risorse energetiche, di arginare il ruolo della Turchia a Tripoli, forte del fondamentale intervento militare a sostegno all’ex presidente al Sarraj contro il generale Haftar.
Erdogan nel mondo islamico gioca un ruolo fondamentale, di fatto è a capo della Fratellanza Musulmana e la sua presenza in Libia oltre a essere fondamentale per l’economia turca, in questo momento in forte difficoltà, è di vitale importanza contro il confinante Egitto di Al-Sisi, che ha messo al bando proprio i Fratelli Musulmani egiziani dopo il golpe contro il presidente Morsi.
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Dopo l’ondivaga politica estera del governo Conte bis, l’Italia prova a riprendersi gran parte degli interessi in Libia e lo fa facendo valere il peso Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del febbraio 2017: da allora l’Italia ha investito direttamente in Libia la cifra esorbitante di oltre 210 milioni di euro, di cui 22 direttamente alla sedicente guardia costiera libica, composta anche da milizie e trafficanti tra cui Bija, comandante definito dalle Nazioni Unite “uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawyah”.
Proprio i campi di prigionia sono tra i punti più controversi dell’accordo: nel capitolo di spesa italiano in Libia, sei milioni di euro sono stati destinati alle ONG che dovrebbero offrire assistenza alle persone migranti detenute in questi centri, molte delle quali dopo essere state intercettate proprio dalla sedicente guardia costiera libica sono stati riportati indietro.
Un Rapporto dell’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) dello scorso luglio riporta che le “ONG italiane debbano necessariamente avvalersi di partner locali sul campo, in quanto la situazione di sicurezza non consente la presenza di personale italiano in loco” e denuncia “l’impossibilità di verificare l’effettiva destinazione dei fondi dei progetti agli effettivi beneficiari” a causa della lunga catena di appalti, e aggiunge nelle conclusioni: “Le spese rendicontate da ciascuna ONG ed approvate dall’AICS corrispondono nei fatti a spese sostenute da soggetti libici fuori dal controllo del governo italiano, all’interno di centri libici gestiti da milizie armate fuori dal controllo effettivo del governo libico”.
In questo scenario “i salvataggi” di cui parla Mario Draghi sembrano chiaramente la strategia italiana di pagare le milizie per fermare la rotta migratoria lungo il Mediterraneo Centrale, nonostante UNHCR abbia denunciato più volte gli orrori che avvengono in questi campi.
Aguzzini e non stabilizzatori di un Paese in conflitto, come vorrebbe la narrazione che in passato è stata dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti e che oggi viene portata avanti dalla responsabile esteri del Partito Democratico, Lia Quartapelle, che twitta “stabilità della Libia e il controllo dei traffici illeciti dipendono dallo sviluppo economico”. La stessa stabilità di cui ha parlato Draghi, ma riferendosi alla ricostruzione e agli appalti milionari, tra cui quello vinto da Leonardo (ex Finmeccanica) per l’utilizzo di un drone per pattugliare il Mediterraneo Centrale.
Costo per il governo italiano: 6,9 milioni di euro all’anno. Una cifra importante per la società a capitale pubblico che da poco ha lanciato la fondazione Med-Or, che ha come obiettivo quello di “unire le competenze e le capacità dell’industria con il mondo accademico per lo sviluppo del partenariato geo-economico e socio-culturale con i Paesi del Mediterraneo allargato, dell’Africa Sub-sahariana, del Medio Oriente e dell’Estremo Oriente con l’obiettivo di porre le basi per uno sviluppo sostenibile ed integrato, nel rispetto delle specificità di ciascuno, legato a partnership strategiche di lungo periodo che, attraverso investimenti e sinergie industriali permetta all’Italia di esprimere il meglio delle proprie competenze” e che ha come presidente proprio Marco Minniti, la stessa persona che ha rilanciato l’Italia in Libia e che ha fatto stanziare tutti quei soldi.
Tratto da: micromega.net, antimafiaduemila
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