Di Paolo Desogus
In molti descrivono il PD come un partito malato giunto ormai allo stadio terminale. Probabilmente è così. Credo tuttavia che occorra un qualche chiarimento. Il PD come spesso ripetuto dai suoi critici, me incluso, è un partito nato male, malissimo anche se sull’onda della novità delle primarie e la minaccia berlusconiana ha ottenuto un forte risultato il giorno del suo battesimo elettorale: 12 milioni di voti (33%) nel 2008.
Numeri importanti, certo. E tuttavia il PD è nato male perché ha fatto della sua mancanza di identità il suo dna. In questo partito non si è del resto mai arrivati a un congresso per definire la linea politica, l’orizzonte ideale da raggiungere, i riferimenti culturali da seguire e rinnovare. È un partito postmoderno, che vive di suggestioni spesso pilotate dai media (europeismo, Sardine, meritocrazia, mantra del privato e della sussidiarietà…), appiattito sul presente e che cerca di definirsi in polemica con la destra e in particolare con la Lega, con la quale ora governa insieme. È del resto anche un partito postideologico, incapace di autonomia di pensiero, la cui esistenza è strettamente legata al potere che è condannato ad occupare per darsi un senso politico. Il PD è infatti il partito che è stato più al governo dal momento della sua nascita, quasi 9 anni su 13. Altro nodo del PD è il suo referente sociale, composto in prevalenza dai ceti cognitivi benestanti, da tempo culturalmente degradati (anche se legati all’università, all’editoria…) e integrati -o che aspirano ad integrarsi – al mondo globale, cosmopolita di cui hanno una conoscenza per lo più provinciale e turistica. Nonostante le tante eccezioni è prevalentemente il partito dei laureati, anzi della “competenza”, qualità intrinsecamente ostile a tutto ciò che è umanistico e politico. Si tratta in larga parte dell’elettorato dei centri storici delle grandi città, l’elettorato dei soddisfatti che vivono come progresso l’avanzamento del privato, del classismo, delle privatizzazioni, della flessibilità nel lavoro.
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È l’elettorato guidato da élite intellettuali che guardano coloro che provengono dalle classi popolari come a delle scimmie dello zoo, ovvero animali speciali, vagamente rassomiglianti, che abitano in posti pittoreschi, le periferie, i piccoli centri e che passano il tempo a guardare Sanremo o a leggere le riviste che si trovano dal barbiere. Ora il mondo a cui ha fatto riferimento il PD è in crisi. La globalizzazione ha creato un nuovo proletariato di individui esposti ai movimenti del mercato, privi di protezione sociale e sguarniti di quell’universo simbolico popolare che consentiva loro di percepirsi come membri di una comunità, di una classe legata da una medesima condizione politica. Il Pd in quanto forza che si colloca a sinistra dell’emiciclo parlamentare dovrebbe dare rappresentanza a questa parte d’Italia. Ma in realtà fa proprio il contrario ed è per questo considerato – giustamente – come il principale artefice dei mali attuali. La segreteria Bersani aveva tentato di studiare e comprendere questi fenomeni, ma non è riuscita a ricavarne una nuova rotta politica. Dal canto suo Zingaretti non ha nemmeno tentato una sterzata: la sua segreteria è stata troppo debole, troppo condizionata dalle lobby e dagli emissari del capitale che da tempo dettano l’indirizzo politico a molti dirigenti democratici. Quanto a Letta, questo segretario designato è direttamente legato ad alcuni di quei centri di potere che hanno incancrenito il PD. Il suo bagaglio culturale deve inoltre molto al prodismo e al pensiero di Andreatta, che oggi possiamo considerare come uno dei mali che hanno ucciso la sinistra. Letta è insomma una parte della malattia, non una cura o un rimedio. Ma forse è proprio questa l’estrema condizione in cui versa questo partito: non più quello di soggetto malato, ma di malattia che ha preso il sopravvento sul corpo che ha inizialmente colonizzato e che ha raggiunto rispetto ad esso la piena autonomia.
Tratto da: L’Antidiplomatico
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